ME DEFRAUDASTE

Occhio che questa farà male.

Per cui se hai il cuoricino debole o c’hai il vizio di sentirti additato perché hai la coda di paglia

o, meglio, perché porti carbone bagnato, come dicono in quella terra bellissima contesa tra Ionio e Tirreno,

è meglio se ti leggi un fumetto. O un articolo sugli amori dell’estate o se ti ascolti la roba che passano adesso in radio e che ti fa impazziiiiiiire, tipo che

E a lui lo vorrei morto e invece ancora ti scrive
Queste strade si son prese la mia parte migliore

cosettine che non saprò mai scrivere io ma loro fanno le hit e io chiusa in questa cantina con trenta gradi e un computer su cui battere i tasti e tuttto il mio rancore

Io passo tutto agosto chiuso in una cantina che almeno qui fa fresco, che almeno qui si rima

Che tanto questi pezzi sono tutta la mia vita

Per voi mi faccio a pezzi, vi dono carne viva


e quindi al Vs. servizio Signori, pronta per fracassarVi gli occhi arrossati dalla salsedine con queste

frecce spuntate

che poi non arrivano da nessuna parte perché tanto dove devono arrivare?

Come cani sciolti senza destinazione tipo i regionali di Trenitalia a zonzo nell’entroterra veneto che sfrecciano tra i meleti.

Devono solo uscire dalle mie vene altrimenti tra bilirubina e transaminasi non c’è più posto neanche per me nel mio fegato, figurati per ‘sta rabbia,

questa risacca secca ed esausta che non lascia neanche più schiuma a riva.

Solo cocci di conchiglie spezzate per i jogger dell’alba sul bagnasciuga.

Ma sai chi si è preso la mia parte migliore? Non la strada, chi l’ha mai vista, quella.

Non i buchi nelle mani quando

avevo finito le braccia

e ho scoperto che neanche Christiane F. conosce tutti i posti in cui ti possono crocifiggere i vasi sanguigni in ospedale quando l’avambraccio è una Salerno-Reggio Calabria di ematomi da fuori vena.

La mia parte migliore se l’è presa la persona che ancora mi scrive, che non volevo morta ma, ancor peggio se vogliamo, incatenata otto ore die nel retrobottega della sua coscienza lurida come le fogne di nuova Delhi senza wifi per controllare i miei accessi whatsApp e che invece è ancora qui.

Anche se l’ho bloccata.

Perché non puoi mettere in modalità aerea gli incubi la notte.

Perché il mondo qui fuori, come ami dire tu, non conosce password, log in e visualizzazioni.

Dai, spiegamelo di nuovo,

spiegalo ancora

a una neo trentenne che da regina del bancone è diventata principessa del foro in vena

dentro una stanza d’ospedale.

Una che a trent’anni ha dovuto racimolare N volte le palle per chiedere al medico

Sono in pericolo di vita adesso, professore?”.

Dove N so di cosa è maggiore ma non so di cosa è minore

perché chissà quante altre volte dovrò obbligare le mie corde vocali sfinite e il mio diaframma a sputare fuori questo quesito che brucia in gola come la vodka buona dell’amico mio quando l’ultima chemio mi ha intarsiato la lingua come una vecchia porta in legno di Damasco.

Perché, con tutto il dovuto rispetto, nessuno di voi, con le vostre battaglie in piazza e le botte dai celerini e “bella ciao” il 25 aprile, ha dovuto cacciare i c*glioni che mi ci sono voluti per chiedere a trent’anni compiuti da sei mesi

.

Sono in pericolo di vita, professo’?

Sono in pericolo di vita?

Hai ragione tu a fare il duro, sai?

A me la testa non me l’hanno aperta per strada.

A me il cranio me l’ha segato il primario dell’ospedale oncologico più rinomato d’Europa. Perché forse se nasci come me, avvolta nel tulle come ballerine di Degas, i rigoli lordi nei fossi delle strade li eviti

tanto lo sai già cosa vuol dire

contemplare la morte,

farsene una ragione,

prenderle le misure con uno spillo tra le labbra strette e il metro in mano, volteggiandole leggera attorno come un'abile sarta alla presa con un abito nuziale di una sposa che toglie il fiato.

Perché la morte è L’unica, l’unica per l’eternità,

ed è lei che ti sceglie, e decide dove e quando

come la più isterica delle fidanzate a un anno dalle nozze,

e sarà lei per sempre

e sarai sua fino alla fine dei giorni, se una fine c’è.

e noi, poveri stronzi,

in frac alla resa dei conti attendendola vestita di bianco e in ritardo come da regolamento,

non facciamo altro tutta la vita che immaginarla, scacciarla,

sfuggirle come lepri dalle trappole nei boschi dell’appennino bolognese dietro la Venturina.

e dimmi se c’è parallelismo meglio cucita addosso alla morte

che una bellissima sposa triste e ripudiata.

Finché sono viva però c’è una cosa che devi sapere.

Che ho palle abbastanza per farmi questo giro di giostra senza il tuo sedicente apprendistato

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(solo a te, in tutto quest’universo mondo, riservati sempre e solo a te, facci caso)

che ad ora mi ha insegnato alla perfezione come tirarsi indietro quando c’è da passar sotto le corde e far uscire i secondi.

ME DEFRAUDASTE.

Che se ti sposti , dove a litigarsi un lembo di terra non son più due sottoprodotti del Mediterraneo ma due maestosi oceani perennemente incazzati nonostante il nome,

lì dove ci son tutti quei cristiani che

non vengono “dalla strada” come te, che sei cresciuto tra i vicoletti di questa borghesissima Casalecchio (ma quale strada poi che sei nato bianco nell’opulente Europa occidentale, ma fammi il piacere)

e nemmeno vengono dalle corsie degli ospedali come me, con

free wifi,

aghi sterili

e lenzuola pulite,

ecco, in quella zolla di terra che ogni giorno lotta per tener il naso sopra l’acqua e con l’acqua alla gola si gioca tutto per due briciole di pane,

in quella parte di mondo dove i rum e i sigari sono migliori perché son davvero l’unica strada che hai per non soccombere alla strada quando hai fame,

ecco, se ti sposti lì, questo ME DEFRAUDASTE suona roboante come un tuono quando hai appena apparecchiato per il pranzo giù in giardino la terza domenica di primavera.

Duro come quando ti dicono “un cancro in progressione non è una buona notizia, signorina”.

Come quando ti sbirciano nel cervello attraverso gli scatti della risonanza e sentenziano “è diventata chemioresistente, signorina, buona giornata e chiuda la porta quando esce”.

Come quando afferri che, anche se sei circondata dagli uomini più duri e affilati della città,

questa pesca te la devi sbrigare da sola,

te, i tuoi cinquanta chili, le tue gonnelline in tulle rosa e le tue palle enormi.

sider.ale, all'anagrafe Tormento Siderale, scappa dall'insicurezza terminologica di una formazione universitaria legittimamente conseguita come interprete per rifugiarsi tra le salde braccia calde in calcestruzzo dell'ingegneria civile e delle sue fatture.

Una vita fatta di poco, guardia bassa e pugni in faccia, con tre luminosissimi fari nella notte: la boxe thailandese, il rap e le parole sbavate di una bic blu su un foglio di carta stropicciato.

Accompagnano le notti di tormenta fuori dal porto le melodie lontane dell'ex Germania dell'Est che, ancora dopo decenni e tanta pioggia di traverso, non le si smacchia di dosso.

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9 commenti
  • Mi dicono che Dio esiste ma si accontenta. La tua sembra una Storia “inabitabile” ma ci sei tu a viverla, tra le gambe di questo porco mondo accoltellato alle radici; il tuo e’ un controcanto migliore della melodia.

  • Se è vero che “la vita è una puttana”, allora noi saremo ancora più puttane di lei. “È diventato chemioresistente signorina”. Bene, allora diventerai resistente-chemioresistente, e vediamo chi ha più palle. Un pugno di cellule che si son calate troppo protagonismo, e che ancora bramano il palco, ma non sanno che i pezzi, li scrivi tu.

  • I binari su cui corrono i regionali se li guardi da vicino pensi che non s’incontrano mai, se volgi lo sguardo all’orizzonte s’incontreranno, un giorno, ma il treno corre sempre solo.

  • Mi dai una scarica di brividi ed emozioni che mi restano dentro e che rimbalzano senza sosta… Sei tosta e RESTISTENTE a tutto!!!

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