You make a full-time working cancer patient feel guilty
Te lo devi ficcare in testa come il ritornello di una canzone indie
che ti scava imperterrita nelle viscere del cervello
che ti dicono che il cervello non ha nervi per percepire il dolore
ma quando certe canzoni ti pestano dentro nella testa ti assicuro che lo senti.
You make a full-time working cancer patient feel guilty
Non me lo fare neanche dire, in colpa per cosa.
Per essersi ammalato.
Per aver avuto paura di morire.
Per essere ancora qui a mangiare a tradimento il pane che si paga col suo stipendio,
uno stipendio da paziente oncologico che lavora le sue otto ore senza chiedere sconti
che non abbassa lo sguardo da uno schermo bianco incandescente
neanche quando la parte di cervello che gli hanno asportato grida dal male.
Perchè a volte sono le assenze che fanno male, si dice.
Lei che ha chiuso quella porta mentre io non ero in casa e non ci siamo più parlate.
La parte di vuoto che sento, vicino l’orecchio sinistro,
come le fossette di un sorriso di uno di quei bei ragazzi ricci dei centri sociali
che chissà perchè i sorrisi con le fossette se sei di destra non ce li puoi avere.
Sorride, l’oncologo. Mi dice, è ovvio, signorina, che senta il buco nella testa. Le hanno aperto il cranio.
E’ ovvio, dice. Mi hanno aperto il cranio.
Io non so cosa le passi per la testa
chiede mia madre della bionda che mi sta facendo mangiare ossa col sale
senza degnarsi di lasciar mai trapelare che male mai un paziente oncologico
che ha perso una taglia in venti giorni di ospedale
le possa aver fatto.
Ah. No, quella bionda lì non sei tu. Ma se ti sei sentita chiamata in causa vuol dire
che qualcosa da farti perdonare da un puro di cuore ce l’hai. E allora vai e muoviti,
perchè non sai quanto dura il lasso tra la percezione del taglio e la rivoluzione delle piastrine che si muovono sotto il pelo dell’acqua.
E quando il taglio comincia a farsi di nuovo pelle… lì corri.
Perché un giusto ferito, amareggiato,
un giusto deluso
è il demone più buio e criminale che tu possa aver mai immaginato da cinnazzina
mentre sfogliavi i tuoi fumetti da collezione di Dylan Dog ignara che un giorno saresti incappata in questo pezzo crudo.
Io non so cosa le passi per la testa
dicevo che si chiede mia madre ad alta voce giù in cucina.
A meno che non sia diventata un affermato neurochirurgo negli ultimi dieci giorni non mi interessa
Le rispondo io, dal profondo di una cavità che non sapevo neanche di possedere.
Forse il buco da cui mi hanno trascinato fuori il tumore dal cervello a giugno, come un buttafuori sciupato a fine servizio che gli tocca prenderti per il polso (lo sai come fanno loro ormai)
e accompagnarti all’uscita mentre te ti divincoli e ti aggrappi con le unghie come un gatto giovane sulle tende
quando vuoi farlo rientrare dal balcone che comincia a far freschino là fuori.
Forse il buco è un altro. Quella fossa delle Marianne che ti scava dentro, mina e minatore insieme,
in quei momenti della vita in cui non sai se arrivi a domani.
Cioè nessuno lo sa, no, perché
Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza
però mediamente voi altri non ve lo chiedete chissà se ci sono domani.
Avete tutti i vostri post it, i cerchi a penna sul calendario della Pubblica al muro, le sveglie nei cellulari.
E se domani non t’alzi, te lo sei mai chiesto?
E se domani fai la fine di ‘sta stronza qui che poi sarei io
e se domani
e se domani ti svegli con un pigiama verde e appena ti tiri su dal letto cadi per terra
e tua madre chiama tuo padre e tuo padre chiama l’ambulanza,
e se domani t’alzi e ti ritrovi sul pavimento di marmo color ghiaccio che ha scelto tuo fratello diciassette anni fa, distesa vicino al suo pianoforte in mogano
come un tubino di raso lasciato voluttuosamente sulla sedia per far scena dopo una notte di sfarzi a palazzo su scarpe di murano.
E se domani t’alzi con un tumore al cervello in un venerdì mattina di maggio che pensi già
al weekend fra sole otto ore lavorative che come da copione oggi sembreranno non passare mai.
Ma voi non ci pensate mai, va’.
Perchè tanto capita sempre agli altri,
perchè tanto è sempre una storia degli altri, una brutta storia degli altri,
un brutto male, sussurrerete tra i vostri spritz ghiacciati nel calice a € 5,00/cad che
lasciatevelo dire da un bartender… Anzi no, lasciamo stare.
Bevete il cazzo che vi pare,
continuate ad omettere la esse della terza persona singolare,
a non distinguere un dativo da un accusativo,
a scrivere a lettere grandi così “piuttosto che” con uso disgiuntivo.
Fate tutto quello che vi pare.
Parlate di ‘ste bestie che ci divorano da dentro come “brutti mali“,
o chiamatele benedizioni come Nadia Toffa,
e provate compassione per noi oppure invidia per i nostri interminabili mesi di malattia
legati a una flebo come un cane a un palo fuori dalla CONAD.
Sai che culo.
Ma siete fatti così, capaci di aspirare con quei polmoni imputriditi tutto quello che non siete,
le palle che non avete di tirar su la testa quando sale l’acqua fino alla gola,
chissà cosa vi passa per la testa quando provate invidia per un paziente oncologico.
Ma ancora una volta,
a meno che non siate diventati neurochirurghi di fama internazionale negli ultimi dieci minuti,
non mi importa proprio niente.
E del resto anche questo pezzo non parla di voi. Parla di me
Di come mi fate sentire da quando non sono più una persona normale.
Una persona e basta.
Io e la mia malattia.
Sono una persona con un cancro, adesso. Due entità inscindibili, anime gemelle.
Finisce lì il giochino.
Una persona con il cancro, come di tante se ne leggono nei libri,
tanto è sempre una storia degli altri. Un’altra
storia degli altri.
Oggi è capitata anche a me. Be’ ad esser sinceri sei mesi fa, oramai.
Quando sono andata a dormire nel mio letto con un pigiama verde e mi sono svegliata
con dei guanti di lattice bianchi spessi così che mi sfarfallavano davanti alla faccia e mi chiedevano
hai assunto qualcosa? hai assunto qualcosa ieri sera, Sara? ce lo devi dire. Hai assunto qualcosa?
Ha assunto qualcosa Sua figlia, signora?
Io non so se voi facciate uso di qualcosa che non piace al maresciallo e, ancora una volta,
a meno che non siate neurochirurghi di fama internazionale assegnati alla mia cartella clinica,
sinceramente poco mi interessa.
Ma vi interessi sapere che quando una s’è fatta una vita di quattro allenamenti/settimana in due città diverse per salire su un ring marcio e lurido,
per farsi massacrare di botte da una a caso vestita da Sonya Blade dentro Mortal Combat, ecco,
a una così il vino e due paglie quando ti fanno incazzare
(e fumare è più una scusa per uscire in terrazza e non fare una strage)
a una così le fate un torto se le chiedete che acidi ha mischiato.
Cosa ha assunto.
Hai assunto qualcosa ieri sera, Sara?
Sento ancora quelle voci.
Ma voglio anche che sappiate che (fate pure il cazzo che vi pare, ma)
quando non sono i vostri amici a ricordarvi con goliardia che
bella ma ti ricordi quella volta che stavi per collassarci per ‘sta roba
quando non sono i vostri amici tutt’attorno a capannello
ma i paramedici dell’ambulanza con quei guanti spessi due dita che vi stringono le dita (controllo neurologico di rito, tutto da manuale) e dicono “ora dimmi cosa hai mescolato”
quando succede
neanche risentirla nei film dopo sei mesi, la stessa frase, vi riesce di non pensarci.
A quando siete collassati come i peggio sbarbi dopo una notte al Cocoricò.
Mentre te sei pulita dalla nascita e la sera prima a letto presto!, che domani si lavora.
Si lavora sempre in questa vita, aspettando di morire,
C’è gente a cui piacciono quelle come me.
Ci sono film che mi tocca distogliere lo sguardo per non sentire quel freddo sotto la schiena di quando sono finita per terra davanti al pianoforte di mogano
che il ghiaccio delle costole sul pavimento manco sul ring è così freddo.
Non so come dirvi. E’ un’altra storia degli altri.
Non so come dirvi che c’è gente
in quel circolo polare che si riunisce fuori dall’uscio di casa mia
che conta, cronometro Decathlon nel palmo, i secondi che mi separano da ora a quando varcherò la soglia
per dilaniarmi come un salmone controcorrente tra le fauci di Babbo Natale in Una Poltrona per Due.
Forse ho la carne più tenera.
Forse con un morso dal mio avambraccio ti spari dentro anche sette cicli di chemio così fai pasto completo e non è neanche male, sa signora, con tutti questi tumori che girano adesso che le strade son buie.
Sono stanca di
ma che volete da me? esattamente dico.
Che di sangue non ne ho più, dilapidato a prelievi ematici settimanali da un angolo all’altro di questa provincia.
Se sono i soldi che vi attizzano, raga,
svendersi per contratto lo sappiam fare tutti, non importa che vi insegni io. Ma sono maestra, eh, nel ricominciare dal basso.
Nel cominciare dal nulla.
O è la salute? Ah è la salute che vi piace di me? Ma prego, accorrano lor signori,
trentun’anni e un cancro raro al cervello, qui si sta larghi, già,
da quando ho un buco in testa e sembra vuota la parte da cui mi hanno asportato un tumore grande quanto un frutto.
You make a full-time working cancer patient feel guilty
Io non sono nessuno per giudicare e finirò all’inferno come tanti altri.
Per aver provato e fallito, per aver smadonnato,
per aver creduto e miscreduto e creduto di nuovo con una croce al collo.
La mia professoressa di inglese delle scuole medie,
quella che ha insegnato a un’interprete di conferenza tutto quello che c’è davvero da sapere dell’inglese, spogliato dai germogli
(a te, Gemma)
e dalle nuove fioriture, diceva,
con quel suo accento maltagliato come i ceppi per la legna a fine novembre quando non ha piovuto
“ma quando andate a dormire la sera…la vostra coscienza… la vostra coscienza (ripeteva) cosa vi dice?”
Sono passati quasi vent’anni ma ancora io la sento.
Quando ti insegnano una lingua le persone restano per sempre.
Come quando ti aprono il cervello i due neurochirurghi più affermati di Bologna,
che hanno soppiantato Katniss Everdeen nella lista dei miei personalissimi supereroi.
Vivono con te e vivranno dentro di te finché tu avrai un ultim’alito di respiro, quelli che ti hanno aperto il cranio
e te l’hanno richiuso con due graffette e un punto croce
che io a rammendare i calzini bianchi di cotone in punta faccio lo stesso macello sulla chiusura
ma Professore, chissenefrega, mi ha ricucito che son più bella dell’abito di Cenerentola quando glielo accomoda addosso la Fata Turchina in persona.
Quando ti insegnano una lingua, ecco anche loro vivono con te.
Come vorrei che la mia migliore amica lo leggesse questo, lei che insegna lingue di professione e chissà se se ne rende conto di quanti piccoli cervellini è entrata a far parte,
prigioniera nelle anime del prossimo come il genio nella lampada.
Gemma, vedi, sei ancora con me. Non mi importa che mi dicano che forse sei morta.
Faccio finta che tu sia viva.
Le poche volte che uno nella vita può ignorare, sai Gemma, uno lo fa volentieri.
Se ti avessi chiamato Gemma vent’anni fa i due che avrei preso. Ma sono passati anni, Gemma, e adesso siamo due donne pari. Almeno, credo.
E poi “Gemma” ti stava meglio che quel tuo cognome aspro come le arance a inizio stagione.
Diciamocelo. Perchè eri dura come le gemme avvinghiate agli alberi in primavera.
Eri ruvida come le gemme che non sono ancora fiore.
Ed eri una bellezza in divenire, che allora non capivo, ma che ora mi è lapalissiana
come i contraddittori di Heisenberg.
Vedi Gemma, a te che me lo chiedevi sempre. Anzi, che lo chiedevi poi a tutti noi,
ma credo che Francesco e Antonio della terza F non si sentissero tanto chiamati in causa.
Vedi Gemma, a te che me lo chiedevi sempre, cosa mi diceva la mia coscienza quando andavo a dormire la sera. Te che facevi sembrare
i libri rimasti chiusi come un crimine contro l’umanità, un caso da manuale per il tribunale dell’Aia.
La mia coscienza mi dice bene.
Mi dice, proprio: “bene”.
Perchè oggi come ieri io il mio l’ho fatto,
Io credo che saresti contenta.
Credo che se ci guardassimo in faccia oggi le parti sarebbero rovesciate. Che mi chiederesti di darci un taglio, di smetterla di accendere il carillon della mia coscienza ogni sera.
Ma tutto sommato saresti contenta.
Perchè ce l’ho fatta, Gemma. Mi sono laureata nella scuola per interpreti più facoltosa di Italia.
Mi piace dirlo, ogni tanto.
La sslmit di Forlì
E sentire levarsi un coro di sospiri spaesati, un po’ in soggezione se devo esser sincera,
che la sslmit di Forlì a nominarla è come bestemmiare in chiesa e tutti si girano intimoriti a guardarti
come se ti fosse appena squillato l’Ericsson al Lago dei Cigni. Te la ricordi quella pubblicità, Gemma?
La sslmit di Forlì è un po’ come un cancro al cervello.
Che quando son sul tappeto e dico “mi dai un attimo che mi allaccio i guantoni?” e l’altro
pesta come un assassino
io mi sento sfinire, perché niente mi esaurisce come i tiri mancini, e allora sibilo
“sslmit di Forlì”
o
“cancro al cervello”
-dipende se sono in mezzo a trentenni a una cena, quando si potevano fare ancora sai,
o ai nonni in fila per il prelievo del sangue alla casa della salute di Casalecchio, ogni locuzione ha la sua occasione, come le perle contro i brillanti,
e tutto si placa. Tutto quello che c'è fuori, perlomeno.
Come baciato dalla lingua gelida del vento di gennaio la mattina.
Come giocasse a un due tre stella con la propria, di coscienza.
La sslmit di Forlì. Il tumore al cervello
Sono sfide enormi, come piacciono a me. Come essere un’atleta di thai boxe
ad appena cinquantadue chilogrammi e diciassette anni.
Sai a volte mi diverto. Con poco, via.
“L’infermiere non sapeva più dove trovarmi una vena, ha scelto il braccio destro alla fine, sai mamma? La devo smettere con la gialla.”
Dico ad alta voce vicino alla farmacia del piano terra al Bellaria,
dove signore troppo profumate per il naso fino d’un malato di tumore
non ti risparmiano le occhiate altoborghesi.
Mi diverte. Che lo pensassero!
Che lo pensiate tutti che son sotto eroina e ho l’incavo del braccio sinistro così sventrato che l’infermiere, sconsolato, non può che scegliere di applicarsi a destra che magari lì trova qualcosa da bucare. Sarebbe solo l’ennesima storia degli altri, tanto.
Che vi cambia? Che mi cambia.
Ma sì. Pensatelo tutti. Tanto di quello che pensate,
a meno che non siate diventati Neurochirurghi di spicco sul panorama nazionale negli ultimi dieci minuti,
non me ne frega niente.
E tanto comunque è vero.
Che scelgono sempre il braccio destro.
Perchè nel sinistro ho ancora le cicatrici delle ago cannule dell’ospedale (ancora?! ancora che dico “ancora”?!
Svegliati bella che quelle lì ci saranno per sempre, in saecula saeculorum amen,
con buona pace del canone estetico standard a guardia della bellezza femminile occidentale).
Parlavo di cicatrici, poco fa, con lui. Gli dicevo che sono stanca di fare la buona.
Un’Harley Quinn in erba de noartri, insomma.
Mi chiede cosa vuoi essere
Gli dico quella che sono
Mi chiede che cosa sei
Gli dico «io sono quello che sono anche
tutti quelli che
hanno cicatrici sulle mani che non sono state inferte né da un bisturi né da una lametta.»
Non vi ci riconoscete perchè tanto è un’altra storia degli altri, tutto regolare.
Stasera queste cicatrici valgono più oro degli orecchini di Smeraldo della mia povera nonna.
Io stasera vorrei soltanto che tu mi scrivessi. Un messaggio, così, a caso. Anzi, no, un sms, come a quei tempi.
Stasera alleno a Rioveggio. Vieni?
Anzi no. Quale domanda. Rifacciamola.
Stasera alleno a Rioveggio. Vieni.
Così, col punto in fondo, come piace a me.
E io verrei anche se allenassi a San Lazzaro, Fabio. Stasera e per sempre,
perché ci sono cose di questo mondo che non capisco, che non capisco col mio metro di callo osseo e ko tecnici mal tarato.
Cose che tu mi facevi capire così bene da quelli che, al tempo, erano i tuoi trent’anni, e che ora sono i miei, di trent’anni, dietro ai tuoi immensi occhi verdi mentre ti raccontavo le mie cazzate che a guardarle ora… no, non farei a cambio.
Perchè non credo che all’epoca sarei stata capace di sentirmi dire a muso aperto hai un tumore senza mandare a puttane tutto quanto.
Però io stasera ci verrei,
tra quelle corde di Camugnano
che sembravano il nostro imbarco prioritario per le spiagge bianche
di cui mi piace pensare parlasse Franco Battiato in compagnia di un libro di Pavese a prestito dal buon Cocciante
Perchè ho bisogno di chiederti delle cose, sai Fabio, tra quelle che allora mi sembravano così chiare.
Perchè mi arrivano gli schizzi di sale se ho la guardia ben alta come mi dicevi tu
dietro quegli occhi color sciroppo di mela.
Perchè ‘sta malattia non si fa sconfiggere dalla mia determinazione
come Cassius Clay che solo con lo sguardo metterlo al tappeto
Perché il mio meglio non è mai abbastanza. Adesso e allora tra quelle corde. Perché il mio meglio non è mai abbastanza
e cosa posso offrire di più in tributo alla DEA, che neanche il sangue mi è rimasto pulito,
imbastardito com’è dalla sveglia alle sei e mezza ogni mattina
cinque giorni mese per 250 mg di chemioterapia da buttarsi dentro in fretta come uno shot di vodka
la domenica mattina?
You make a full-time working cancer patient feel guilty
Mi rimbombano le mie stesse parole stanotte nella testa, quelle che ho scritto
spingendo forte con la bic nel quaderno come quando incidevamo il tavolo del Bazar giù al mare,
ti ricordi?
You make a full-time working cancer patient feel guilty
Scusa se non mi ha preso l’afasia. Ti avrebbe fatto piacere vero?
Poverina la Sara, era così brava a scrivere, guardala ora che sbava con la bocca aperta da una sedia a rotelle.
Poverina la Sara che parlava tante lingue e si era laureata alla Sslmit di Forlì (consueto coro di voci sorprese, da bravi!).
Poverina la Sara che di notte faceva il bartender per guadagnare qualcosa di più
da dividere con chi non ha mai diviso le bollette con lei invece.
Poverina la Sara.
Tientela la tua calda preoccupazione sai. Perché avresti solo voluto ciò che è mio e invece scoccia, vero?, che io non sia diventata afasica. Che io sappia ancora scrivere, parlare, fare di conto.
Che io cammini ancora.
Come ti sarebbe piaciuto venirmi a visitare a casa dei miei. Avrebbero lucidato casa da un giorno prima, io li conosco bene sai.
Ti avrebbero fatto il caffè lì sul momento e mio padre avrebbe anche abbozzato un sorriso svuotato, svuotato come il mio cervello,
proponendoti il solito vino del fattore che sa lui nel bicchiere di vetro grosso.
E ti avrebbe guardata come si guardano
i figli degli altri
quando i tuoi sono sotto due metri di terra
e tre margherite al cimitero.
Come ti sarebbe piaciuto venirmi a visitare, lavarti la coscienza, e raccontare a tutti di quanto bene mi hai trovato,
«certo, non riconosce più le persone e non sa dire frasi di senso compiuto, non può neanche più bere da sola, pensa, proprio lei che con quelle mani veloci da bere lo faceva per gli altri. Di notte. Dopo l’ufficio. Per guadagnare qualcosa di più da dividere con chi non ha mai diviso le bollette con lei»
Un’altra storia degli altri, non è vero, tanto tu “grazie del caffè”
poi avresti fatto ritorno nella tua bella casetta lontana dai sorrisi svuotati di mio padre, svuotati come i zucchetti da far ripieni.
You make a full-time working cancer patient feel guilty
E invece no, sono ancora qui.
E se ti senti chiamata in causa, tranquilla, non sei te,
ma bene che ti stai pettinando quella folta coda di paglia che ti ritrovi setacciandola filo a filo, come su un telaio, alla ricerca di quei sozzi pidocchi di rimorsi di coscienza che è giusto tu abbia.
Chiunque tu sia.
Porti carbone bagnato, come direbbero a Sibari
aspirando la risacca come una sigaretta il condannato.
Sono ancora qui, col terrore costante che mi debbano riaprire il cervello. Che non sia ancora tutto certo. Che queste gambe, queste dita veloci sulla tastiera davanti a uno schermo abbacinante,
le parole che mi scorrono prima nella testa come su una vecchia macchina da scrivere
poi sulle bozze di quest’articolo,
questo cervello che è quasi com’era prima, che va bene già com’è,
non siano per sempre.
You make a full-time working cancer patient feel guilty
Ma voi, voi lo sapete com’è la prima volta che “chemio” non è più una parola degli altri. un’altra storia degli altri?
Quando hai troppi pensieri per la testa e implori tua madre di uno spunto.
“Mamma ma oggi durante la radio…a cosa penserò per non pensarci?”
A cosa penserai per non pensarci.
Ossimorico.
Sono senza parole! La profondità delle parole mi turbano ma nel contempo mi illuminano!
Mi sento nel buio della tua mente, è come andare a schiodo su una montagna russa che conclude sempre il cerchio negli stessi punti ma non si ferma e non finisce veramente mai.
Dopo tutto l’inferno che hai vissuto, vorrei darti una speranza citando Dante: “E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno XXXIV, 139)”
Commovente e sconcertante insieme. Ma sono certa, mia carissima Sider.ale, che tutto questo finirà e allora sarà come svegliarsi da un lungo e terribile incubo.
Mozzafiato… al momento non trovo altra parola per descrivere questo testo.. l’ho letto quasi in apnea.. ad ogni parola e ad ogni cambio o enfatizzazione del formato di testo ho percepito mille sensazioni.. complimenti davvero mozzafiato!
Commovente.
Sconcertante.
Tagliente.
Da brividi.
Un viaggio nel tempo questo brano… e io con le lacrime agli occhi mi sento con te in ogni parola.
Grande scrittrice, grande guerriera, grande donna
Che queste parole funzionino come un funerale vichingo alla tua rabbia.
Leggendo questa storia, gli “altri” diventano inevitabilmente parte di una realtà apparentemente lontana. Una realtà che la sorte non sa mai a chi destinare.
Grazie per la schiettezza e la verità profonda delle tue parole.
Ho avuto i brividi e la calma, caldo e freddo, sorriso ed intristito, poche volte ha toccato così rapidamente ed estremamente due poli di emozioni e sensazioni. Inghiottito da questo flusso frastagliato è stata una di quelle volte. Grazie
Molto bello, scritto come si deve e con contenuti duri e spietati. Come questa realtà della quale molti di noi non vogliono nemmeno sentir nominare.
…mentre leggevo mi sentivo sulle montagne russe… Trattenevo il respiro.. Mi hai impietrita davanti alla tua rabbia e consapevolezza… Sei sempre di più una splendida scoperta.
Stasera alleno, vieni.
Purtroppo presi nelle proprie vite, spesso si ignorano gli altri.
Grazie per avermi fatto vedere l’altra parte della medaglia.
Mi hai commosso.