Provo a immaginare una serata uggiosa dentro un locale rétro dei bassi fondi di Bologna. Locale pregno di fumo, di gente che più si fa tardi più abbassa lo sguardo, ormai ubriaca, sospetta, dimessa, sola. Un palchetto come unica fonte di luce nella penombra. Beh da questo non potrebbe che provenire una fumosa e sofferta sonata dei Morphine. Il sax baritoneggia un motivo che raschia la schiena e scende insieme al whisky, nello stesso momento in cui il cantante Mark Sandman ti sussurra qualcosa di incomprensibile all’orecchio.
Orfani del loro frontman, i Vapors of Morphine sono arrivati al Locomotiv di Bologna. E puntuale come per ogni concerto a cui partecipo in questo locale, la pioggia è iniziata a cadere fitta. Giusto considerarla come una sorta di scenografia naturale prevista per entrare nel climax della band.
Ritrovo i Morphine dopo averli lasciati da regazzino, non pensando potessero ricomparire qua dopo tutti questi anni. Questo ha conferito allo spettacolo un’aura di intimità, un significato personale. Esiste sempre una connessione tra il gruppo che ti appresti a vedere, i testi, il genere, e quello che stai cercando o semplicemente passando in quel momento.
Io e la mia amica entriamo. Come per noi immagino il concerto, allo stesso tempo così di nicchia e così storico, abbia riunito gente che non poteva pensare di avere questo tratto comune. Scuotendola.
Finiti gli strilli della band d’apertura cala il silenzio. Luci basse. Birra. Pioggia.
Parte il basso. Poi la batteria. Poi il sax, a scaldare l’animo. Good mi fa già passare un brivido, la voce di Jeremy Lyons è molto simile a quella dell’ex cantante.
Il concerto sale di intensità. Cerco in me quella leggerezza, quella nebbia cerebrale. Qualcosa che possa dar modo a quei suoni di farmi concentrare su determinate sfumature, temi, pensieri. Vedo la mia amica reagire bene, anche lei ha una strategia.
Il repertorio è lungo e non mi è facile riconoscere canzoni così fluide. Si passa da Claire del primo importante album Good, alla bellissima Souvenir, dove canta il sassofonista Dana Colley. I suoni familiari, immagazzinati dentro da troppo tempo senza consulto, e il sax vellutato, uno dei miei fiati preferiti, mi mandano in trans.
Si passa poi per The Saddest Song, la nota Cure For Pain e la più recente The Night.
La serata corre veloce, non smettiamo di immedesimarci in quella musica. Che forse pretenderebbe cornice più intima. Io e la mia amica usciamo piuttosto silenti, come abbagliati da quello stralcio di immaginazione, un respiro, in un bar buio, pieno di storie maledette, di sguardi e bottiglie rotte, con il palco ancora fiocamente illuminato, abbastanza per dare un ultimo sorso al whisky accompagnati dalle note tetre dei Morphine.