Ero indeciso se andare a vedere i Calibro 35 o gli Algiers. Entrambi al Locomotiv. I primi di sabato, i secondi il mercoledì. Poi il soldout del supergruppo di Milano, ormai di casa a Bolo, e la naturale propensione per gli eventi infrasettimanali, mi hanno fatto optare per gli americani di Atlanta.
Chiamata alle armi per il fedele amico Pablo, che subito ha provveduto ad imbastire, come corollario al concerto, un rapido pasto a base di carboidrati e vino. Molto vino.
Partiti per quel di via Serlio i nostri ragazzi si fermano prima a fare tappa nel baretto probabilmente cinese del DLF, di cui devo menzionare l’ottimo album Kinotto di freakantoniana memoria appeso al muro, e poi si scagliano dentro il locale. Non gremito, almeno al bar.
La poca folla ci permette di avvicinarci avanti, quasi a ridosso del palco, dove è appeso, come unica scenografia, un brandello, uno straccio, con disegnato il pugno nero che ha segnato l’agognata storia dell’emancipazione afroamericana con la scritta, altrettanto amatoriale, “all power to the people”. Beh, minimale ma tanto tanto impattante.
Il concerto ha inizio. Vodka tonic in mano. Sono in quattro: Franklin James Fisher il cantante e tastierista, Ryan Mahan che si dimena tra basso e consolle, e quando dico si dimena intendo che non ha proprio pace, e Lee Tesche, elegante, alla chitarra. Il batterista, infine, Matt Tong, forse il migliore in serata, capello lunghissimo tipo spaghetto davanti agli occhi, bravissimo a sostenere ritmi così eterogenei.
Gli Algiers propongono gran parte del loro secondo e ultimo lavoro, The Underside of Power, e pezzi immancabili del primo album, come il capolavoro Blood, che caratterizza molto la loro proposta musicale, in relazione a suoni che hanno profumo di tribalismo.
L’ultimo singolo, che dà il titolo all’album, ben rappresenta quello che suscita nell’ascoltatore la band di Atlanta. Per prima cosa il messaggio: mi sento quasi spiazzato a vedere dopo tanto tempo una band che affronta temi sociali, ci crede, li urla, vi basa la propria letteratura. Complimenti.
Poi la prestazione: Fisher è incazzato, si butta sul noise più totale, con una voce soul che solo grazie alla propria intensità riesce a trainare la preponderanza dei suoni. È come sentire Nina Simone che sbrocca sulle basi distorte di Trent Reznor, capolavoro. Infine, il bassista. Il bassista! Sarò io che mi immedesimo, sarà l’entusiasmo o saranno le anfetamine, ma non potete immaginare la carica che aveva addosso. Un eroe. Il concerto spazia anche tra lente introspezioni, come la ballata Mme Rieux, e vette trip-hop poggiate su basi che non sono mai banali.
Gli Algiers tornano sul palco per un bis, poi si chiude il sipario. Un’esperienza insolita, frutto anche del fatto di non conoscere bene che genere di serata aspettarsi, carica di emotività e significato. E di vodka. Ché, per chi ha grandi ambizioni in mezzo alla settimana, sono le cose migliori.