Di Lorenzo Balbo e Luca Vanelli
Il ponte delle Gianchette svetta parallelo a via Tenda – arteria fondamentale del tessuto urbano ventimigliese, nonché sede dell’info-point gestito dai volontari dell’associazione ‘Iris’ in collaborazione con ‘Melting Pot Europa’- e accompagna il Roja dal lungomare alle catene montuose situate alla periferia della città. Negli ultimi anni, molti migranti, spesso senza documenti, si sono stabiliti lungo il greto del fiume. Per questo, il quartiere ‘Gianchette’ è diventato il rione ventimigliese che, più di ogni altro, ha subito le conseguenze del recente esodo migratorio.
Fonti attendibili ci riferiscono che l’accampamento si sta gradualmente trasformando in una sorta di zona franca in cui alcuni gruppi etnici sono ormai difficilmente avvicinabili. Inoltre, le notizie di scarsa solidarietà tra le varie etnie sono all’ordine del giorno. Un volontario ci spiega come la disposizione delle tende sia chiaramente definita in base alla nazionalità di provenienza. Sul lato adiacente ai parcheggi di via Tenda si sono prevalentemente insediati eritrei, etiopi e sudanesi, “buone persone”, sempre capaci di regalare “un sorriso quando si prova a dare loro un aiuto”. Il corridoio centrale è di occupazione afghana. Sul lato opposto, invece, risiedono i nigeriani, che tendono ad isolarsi maggiormente: “non ci avviciniamo più perché in passato si sono verificati episodi spiacevoli”, racconta il volontario, che specifica: “spesso sono loro a controllare il mercato della droga e della prostituzione, costringendo le donne a vendere il proprio corpo”. La situazione di anarchia fa il gioco dei passeurs infiltrati, che possono agevolmente lucrare sulla disperazione dei migranti, soprattutto quelli di nazionalità differente rispetto alla loro.
Da non sottovalutare le difficoltà pratiche di comunicazione tra profughi: gli stati africani hanno alle spalle passati coloniali diversi e l’arabo – che più di ogni altra si avvicina ad essere la lingua ‘universale’ del migrante – si differenzia a seconda della regione in cui viene parlato. “Per comunicare col maggior numero di persone, conviene imparare la variante mediorientale: quella maghrebina è ‘contaminata’ e viene utilizzata solo dagli abitanti degli stati nordafricani per comprendersi vicendevolmente”, ci spiga Saleh, ragazzo sudanese residente nel centro di accoglienza Camporosso che ogni giorno aiuta i volontari di via Tenda.
Nemmeno l’Infopoint è esentato da episodi spiacevoli. Il terzo giorno, una ragazza viene derubata del cellulare e poi ricattata. Il sistema sembra collaudato: dopo il furto, viene inviato un messaggio ad un familiare – nello specifico il fratello, anch’egli giunto in Italia e stabilitosi a Milano – per chiedere un versamento come riscatto su ‘Western Union’, piattaforma utilizzata da molti migranti per trasferire e ricevere denaro. Il luogo di incontro per il ‘rilascio’ del telefono viene segnalato tramite foto, in questo caso Imperia.
Non è un segreto: sotto il ponte delle Gianchette le condizioni igieniche sono ormai da tempo precarie. Il quinto giorno entriamo in un bar e notiamo un inserto del giornale locale ‘La Riviera’ che parla esplicitamente di “lager del Roja”, citando anche una serie di denunce recentemente rese pubbliche dal blog “Parole sul Confine” attraverso un reportage intitolato “Everithing is lost – Parole sul confine”. “La situazione sanitaria all’interno degli accampamenti di fortuna è piuttosto grave”, si legge: la scabbia si sta diffondendo in maniera preoccupante e i farmaci necessari a curarla sono troppo pochi rispetto al numero di persone malate.
Queste difficoltà si palesano nel quotidiano: ogni giorno, molti migranti – anche non residenti sotto il ponte – chiedono assistenza a Koldo e Beatrice – due volontari spagnoli, rispettivamente medico e fisioterapista – per risolvere i propri dolori fisici, dalla tosse alla slogatura delle ossa. I pazienti più gravi vengono anche accompagnati in ospedale. È il caso di Hayat e Najad, due sorelle eritree di 17 e 19 anni. Hayat accusa i sintomi di un’allergia diffusa e della congiuntivite, mentre la sorella maggiore soffre di emorroidi. “Ci è voluto un po’ per persuaderle”, testimonia la nostra compagna di viaggio Costanza, “in quanto sospettavano di dover lasciare le impronte digitali all’entrata della struttura” (preconcetto molto diffuso tra migranti). Come da procedura, “gli è stato conferito il codice STP” (Straniero temporaneamente presente, ndr), documento che gli ha consentito di accedere gratuitamente al servizio sanitario italiano.
La situazione è delicata, sia per i profughi che per gli autoctoni, e la tensione è palpabile. La mattina del secondo giorno, a pochi minuti dall’apertura, una signora di mezza età si materializza davanti alla serranda del point e, rivolgendosi ad un volontario, domanda: “perché non gli dite di andare al Campo Roja?”, indicando i ragazzi in coda per entrare. Poi argomenta: “è libero e c’è pure la navetta della Croce Rossa monegasca che li può accompagnare”, e aggiunge: “mangiano tre pasti al giorno, mentre io a volte non ce la faccio perché devo pagare le tasse. Quando mio padre è arrivato dalla Calabria, dormiva in una stalla e lavorava nei boschi, nessuno gli ha dato un pezzo di pane. Loro, invece, pretendono!”. “Dite a quelli del governo di venire a vivere in via Tenda”, conclude la signora.
Teoria che contrasta con la testimonianza fornitaci da Hamza, ragazzo tunisino ospitato al Campo Roja che incontriamo all’info-point. Invero, non esistono navette che facciano regolarmente la spola tra il centro di Ventimiglia e la struttura della Croce Rossa: per coprire questo tratto di strada, è necessario camminare lungo il cordolo di una Superstrada privo di un vero percorso pedonale; inoltre, è importante considerare che di sera – specialmente d’inverno – i migranti sono costretti a spostarsi al buio. A onor del vero, durante la nostra settimana di presenza a Ventimiglia, abbiamo sempre trovato la navetta della Croce Rossa monegasca parcheggiata davanti alla Stazione.
“Per la prima settimana non sono uscito dalla struttura”, racconta Hamza, che descrive la stanza assegnatagli come “troppo piccola per ospitare lui e i cinque coinquilini afghani”, coi quali – per altro – non riesce a comunicare in alcun modo. “Rischio di impazzire”, ci confessa durante la sua prima visita ad ‘Eufemia’: “le mie giornate consistono nell’ascoltare musica con le cuffie”. Hamza lamenta anche condizioni igienico-sanitarie precarie: “non posso fare la doccia perché i bagni sono impraticabili”. E ad ascoltarlo, quasi sorge il dubbio che cercare di vivere in condizioni umanamente accettabili sia una pretesa più che onesta.
(Il reportage è pubblicato in collaborazione con la redazione di The Subway Wall – visita il sito)