di Costanza Lomaglio
Il trattato di Schengen costituisce una delle maggiori conquiste del processo di integrazione europea. Il suo proposito è quello di creare una zona di libera circolazione per i cittadini dei Paesi aderenti e Terzi, priva di controlli alle frontiere interne che separano gli Stati sottoscrittori.
La prima definizione dell’accordo risale al 1985, il suo effettivo recepimento nel diritto dell’UE al 1997 con la sottoscrizione del ‘Trattato di Amsterdam’. Ad oggi, i Paesi inclusi nell’area Schengen sono 26, 22 dei quali membri UE. L’adesione all’Accordo implica la cooperazione nel Sistema d’Informazione Schengen, teso a permettere alle autorità nazionali di polizia di scambiarsi agevolmente informazioni su persone coinvolte in reati gravi.
Inizialmente, la rimozione dei controlli alle frontiere interne ha avuto come corollario l’implementazione di quelli effettuati ai confini esterni dell’area Schengen. A partire dal 2011, tale sistema è entrato in crisi per via del crescente afflusso di profughi in fuga dalle ‘Primavere Arabe’. In particolare, la principale fonte di minaccia è stata individuata nell’eccessiva permeabilità delle frontiere esterne dell’UE, imputata alla negligenza dei Paesi “di primo accesso”.
Nell’ottobre 2013, complici le crescenti pressioni esercitate dagli Stati “interni” dell’UE, la Commissione ha promulgato due Regolamenti (n.1051 e n.1053) volti a reintrodurre i controlli alle frontiere interne, in particolare a seguito di attentati o minacce terroristiche. L’intento era quello di assicurare che “l’estensione e la durata del ripristino temporaneo” fossero “limitate”. Tale termine è stato infatti fissato a un massimo di trenta giorni, prorogabili fino a sei mesi o, in caso di grave minaccia, due anni. Lo stesso regolamento sottolineava che l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini non europei non dovrebbe di per sé essere considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna.
Durante lo svolgimento del loro compito, le guardie di frontiera – sia essa esterna o interna – hanno l’obbligo di rispettare la dignità delle persone, la Carta dei diritti fondamentali e il diritto internazionale, anche per quanto riguarda l’accesso alla protezione internazionale e il principio di non respingimento. Nonostante ciò, negli ultimi anni non sono mancate indagini della Commissione a carico di Stati membri sospettati di abusi nella gestione del controllo frontaliero. Nel dicembre 2013, la Grecia è stata imputata per gravi maltrattamenti e pratiche di respingimento alle frontiere esterne. Nel febbraio 2014, le medesime accuse sono state avanzate nei confronti della Bulgaria. Nel 2015, la Spagna è stata indagata in merito a presunte espulsioni sommarie, con riferimento alla situazione di Ceuta e Melilla.
2015– Schengen sotto attacco
Il 2015 è stato un anno di cesura per le sorti dell’Accordo di Schengen. Il numero di attraversamenti irregolari delle frontiere rilevati nei primi 11 mesi di quell’anno risultava superiore (1.553.614) al numero complessivo di quelli avvenuti nei sei anni precedenti (813.044). La relazione della Commissione sullo stato dell’area Schengen del dicembre 2015 stimava che le persone di cui si erano rilevate le impronte digitali durante l’attraversamento corrispondevano al 23% del totale, nonostante il Regolamento EURODAC imponesse l’obbligo di rilevare tutte le impronte digitali dei richiedenti asilo intercettati al momento dell’attraversamento irregolare di una frontiera esterna. A ciò si aggiungeva un drastico incremento della percezione di pericolo, causato dall’attentato terroristico di Parigi (13 novembre 2015) e dallo sventato attacco al treno Thalys (21 agosto 2015).
Ad ogni modo, la relazione riconosceva che i significativi movimenti di migranti senza documenti all’interno dello spazio Schengen erano (e sono) causati dal fatto che i richiedenti protezione internazionale preferiscano proseguire verso gli Stati membri di loro preferenza (dove spesso si incontrano familiari e maggiori prospettive occupazionali), anziché sottoporre le domande all’esame dei “Paesi di primo accesso”, come invece stabilito dalle norme di Dublino.
La soluzione prospettata nel 2015 dalla Commissione, in sintonia con gli Stati “interni” dell’Unione, non ha messo in discussione il criterio del “Paese di primo accesso” come responsabile dell’esame della richiesta di asilo. Piuttosto, si è scelto il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne da parte di Germania, Austria, Slovenia, Ungheria (dove venne eretta una recinzione al confine con la Serbia), Svezia e Norvegia.
Sebbene nel 2013 i legislatori avessero convenuto che i flussi migratori non possono giustificare il ripristino dei controlli alle frontiere interne, la Commissione ha affermato che l’afflusso incontrollato di un numero elevato di persone prive di documenti avrebbe potuto costituire una grave minaccia. Pertanto, l’applicazione di misure straordinarie era giustificata.
I movimenti secondari dei migranti non identificati, associati alla minaccia rappresentata dall’“attività terroristica transfrontaliera” hanno indotto alcuni Stati membri a prorogare il ripristino del controllo di frontiera a più riprese (50 volte in totale dal settembre 2015), talvolta fino ad esaurimento del lasso di tempo massimo inizialmente previsto dalle norme.
Come riportato dalla relazione della Commissione del settembre 2017, “negli ultimi due anni le procedure per la proroga del controllo temporaneo alle frontiere interne si sono dimostrate inadeguate a fronteggiare le accresciute minacce all’ordine pubblico o alla sicurezza interna”. La Commissione è quindi giunta alla conclusione che occorra portare a un anno – anziché sei mesi – il periodo di tempo del ripristino temporaneo del controllo alle frontiere interne e che la durata del periodo di proroga debba passare da 30 giorni a 6 mesi, con possibilità di dilatarla fino a due anni.
Le politiche adottate dalla Commissione per affrontare la sospensione di Schengen da parte degli Stati Membri assecondano la volontà di quest’ultimi e dimostrano che, non solo il dibattito politico, ma anche il principio di libera circolazione nell’UE sono sempre più spesso condizionate dal tema della gestione dei flussi, spesso identificato con quello della prevenzione del terrorismo. A ciò non sembra corrispondere altrettanta determinazione nel definire la riforma del regolamento di Dublino sul sistema di asilo europeo. Quest’ultimo, insieme alle sospensioni di Schengen, continua a costringere migliaia di persone a scegliere tra la clandestinità o la permanenza nei Paesi frontalieri come l’Italia, in cui la durata media di una procedura di riconoscimento della protezione internazionale è pari a due anni. Fagocitati dalla percezione dell’emergenza perenne, Stati membri e istituzioni sembrano smarrire sempre più il senso della solidarietà e della condivisione delle responsabilità.
(Il reportage è pubblicato in collaborazione con The Subway Wall – visita il sito)
[FONTI:– http://asiloineuropa.blogspot.it
– https://ec.europa.eu/commission
– http://eur-lex.europa.eu]