di Lorenzo Balbo e Luca Vanelli
Ventimiglia mescola, a distanza di pochi metri, vicende personali variegate, ma sempre ugualmente significative. Le testimonianze raccolte durante la permanenza ci consentono di tracciare un quadro – seppur parziale – di un esodo che forse ci siamo abituati ad analizzare in maniera sommaria.
La mattina del terzo giorno, tre ragazzi in attesa di poter utilizzare i computer si siedono di fianco al bancone dell’info-point. Domandiamo da dove provengano, ma non è facile comprendere perfettamente la risposta. “Etiopia?”, azzardiamo. Scuotono la testa sorridenti, ma ci tengono a correggerci: “Eritrea”. Spiegano che i due stati sono attualmente in guerra e che, in patria, confondere le due nazionalità è un peccato grave.
Per descrivere meglio la situazione utilizzano un parallelismo col recente conflitto tra Sudan e Sud Sudan: un tempo (fino al 1993), le due nazioni erano unite e l’Eritrea costituiva una semplice provincia settentrionale dell’Etiopia. Per questo, la lotta è ora impari: l’Eritrea non può infatti competere con l’ex madre patria in quanto ad estensione territoriale e numero di abitanti. “I focolai si concentrano lungo il confine”, prosegue il racconto. Inoltre, “il governo eritreo costringe i civili a combattere a vita per l’esercito locale senza alcuna retribuzione in cambio”. Chi si rifiuta viene incarcerato in prigioni sotterranee, talvolta anche per il resto dei propri giorni. Chi riesce a fuggire, invece, deve affrontare un’odissea.
Abrahm accetta di raccontare il suo viaggio, mentre il suo compagno Mosab fa da traduttore e disegna ogni tappa del percorso su un foglio A4 rimediato in un cassetto. Nonostante siano connazionali, i due ragazzi hanno problemi di comprensione reciproca e, in alcuni frangenti, si arrangiano in inglese. Si parte da Asmara – capitale eritrea – in direzione Shire, distretto situato all’estremo nord dell’Etiopia: per raggiungerla, sono necessari 2 giorni di cammino e il pagamento di 30 mila nacfa, l’equivalente di 2000 dollari.
Da Shire ci si dirige verso Khartoum – capitale del confinante Sudan, nonché snodo cruciale dei flussi migratori centrafricani – previa sosta a Cassala, città sudanese al confine con l’Eritrea: ci si muove in taxi guidati da trafficanti locali e il costo dello spostamento è di 1800 dollari. Il viaggio prosegue procedendo in direzione Bani Walid, uno dei principali porti settentrionali della Libia. Anche in questo caso è previsto un check-point a Cufra (oasi sud-orientale libica), mentre la tassa imposta è di 1700 dollari. L’attraversamento del Mediterraneo è il tratto finale – oltre che più costoso – di questa tortura itinerante: per raggiungere le coste della Sicilia, gli scafisti hanno chiesto ad Abrahm 5500 dollari. Per non sbagliare Abrahm e Mosab digitano minuziosamente i numeri appena annunciati sulla calcolatrice del telefono e, una volta terminate le operazioni, mostrano l’ammontare complessivo del viaggio: 11 mila euro.
Nel frattempo, al bancone arriva un ragazzo di nome Abdu per caricare il cellulare. Anche lui non sfugge alle nostre curiosità circa le origini. “Addis Abeba, Etiopia”, risponde fatale. “Quindi voi non andate d’accordo?”, domandiamo indiscreti. Mosab ci smentisce con chirurgica precisione: “eritrei ed etiopi sono fratelli, sono i governi a farsi la guerra”.
L’Eritrea è la patria di origine di un’altra ragazza che conosciamo al point già poche ore dopo il suo arrivo a Ventimiglia: Hayat. Le hanno detto che le “sisters” – così ci si chiama tra donne all’info-point e sotto il ponte delle Gianchette – possono darsi una sciacquata nel lavandino del bagno al piano inferiore di Eufemia. Interrompiamo la distribuzione di vestiti agli uomini perché Hayat vorrebbe un po’ di riservatezza: “I feel shy” (“mi sento in imbarazzo”), dice prima che l’ultimo dei ragazzi abbia salito le scale. Dopo pochi minuti, altre due ragazze eritree ci raggiungono nel sottoscala. “Sono le mie sorelle”, spiega Hayat con un gran sorriso che sembra quasi dire: “è stata dura, ma ce l’abbiamo fatta a restare unite!”. La loro destinazione finale è la Germania, dove la sorella maggiore le aspetta da due mesi. Quando sono arrivate in Libia, la più grande “era incinta del marito”, specificazione non scontata per via delle atroci violenze che le donne sono costrette a subire durante il viaggio (non solo nelle carceri libiche). Per questo, le è stato concesso di affrontare la sfida estrema – la traversata del Mediterraneo – prima delle sorelle.
Come le spiega Daniela di Intersos, ONG impegnata nell’assistenza medica e legale a Ventimiglia, Hayat può, in quanto minorenne, chiedere il ricongiungimento familiare con la sorella in Germania e, come previsto dal Regolamento Dublino III (2014), le spetta anche il diritto all’accompagnamento da parte di una delle sorelle maggiorenni. Per il ricongiungimento però, potrebbe dover aspettare fino a sei mesi e mezzo. “Non mi piace stare qui, senza altra scelta se non quella di aspettare”, confida Hayat, “non voglio sprecare il mio tempo, ho troppi progetti: studiare, imparare e poi trovarmi un lavoro per essere indipendente e prendermi cura dei miei genitori, che sono rimasti a casa”. Poi, “mi piacerebbe aiutarli a realizzare una grande ambizione: fare un viaggio a Medina per visitare il sepolcro del profeta Muhammad”. Lo scorso 12 febbraio, ci è giunta notizia che Hayat è riuscita a raggiungere sua sorella maggiore a Colonia.
Oppositore del regime di Ben Ali durante la ribattezzata ‘Rivoluzione dei Gelsomini’, Billal è fuggito dalla Tunisia nel 2011 per trasferirsi in Libia. “Il primo anno è stato itinerante, nei seguenti quattro mi sono stabilito a Sabrata: sono riuscito ad ambientarmi bene”, spiega. I problemi sono cominciati nel 2015 con l’intensificarsi del conflitto civile, così nel 2016 “ho deciso di partire per l’Italia”. Il ricordo della traversata è ancora indelebile: “eravamo 1500 in una sola barca con due bagni, ci davano solo acqua e niente cibo”. Il racconto combacia alla perfezione con quello di Abrahm, anche se la conclusione è diversa: “abbiamo navigato quattro giorni, poi siamo stati soccorsi e portati in salvo da una nave italiana”. Una volta approdato nello Stivale, Billal ha vissuto per sei mesi ad Agrigento, dopodiché ha risalito l’Italia: Napoli, Roma, Pisa, Milano, Genova, Ventimiglia, Torino, Bardonecchia e, infine, di nuovo Ventimiglia. Al momento vive al Campo Roja e cerca un lavoro onesto che lo tenga al riparo dal vortice dello spaccio, in cui molti profughi vengono inghiottiti. “Sono un imbianchino”, puntualizza.
Anche Hamza è tunisino, ha 17 anni ed è arrivato in Italia nel gennaio 2018 assieme ad un amico. “Siamo partiti direttamente dalla Tunisia pagando 1000 euro: non abbiamo avuto particolari problemi durante il viaggio perché breve”. Parole che fanno effetto, se confrontate con la chiosa finale: “la nave ci ha gettato in mare a 100 metri dalla costa per fare ritorno in Tunisia”, nessuna eccezione nemmeno per donne e bambini. “Per arrivare sulla costa abbiamo dovuto nuotare, forse qualcuno non ce l’ha fatta”.
Il primo giorno trascorso in Italia “ero terrorizzato perché some ‘black people’ stole all my stuff” (“alcune persone di colore mi hanno rubato tutte le cose che avevo portato con me”), ricorda, poi prosegue: “abbiamo camminato per 8 ore da Siculiana ad Agrigento”. Da qui, il trasferimento a Palermo. Proprio nel capoluogo siciliano, Hamza comprende di voler lasciare l’Isola per avviare altrove l’iter di richiesta dei documenti.
Costretto ad abbandonare l’amico, privo di soldi per proseguire il viaggio, Hamza parte per Roma in treno (mentre racconta, mostra le foto del traghetto di Trenitalia che attraversa lo Stretto). Una volta giunto nella Capitale, compra i biglietti per Pisa: “ricordo di essermi addormentato sul treno” e che, ad un certo punto, “qualcuno mi ha svegliato per ordinarmi di scendere”. Appena uscito dal convoglio, “ho domandato in che città mi trovassi e mi è stato risposto Pisa, quella con la torre storta”, specifica per evitare fraintendimenti. “Solo allora mi sono accorto che mi avevano rubato il cellulare” e che, per di più, “avevo esaurito le risorse economiche”. Fuori dalla stazione, “un signore mi ha chiesto di lavorare come imbianchino: ho accettato e guadagnato 50 euro, spesi per arrivare fino a Milano e, in seguito, Torino”. Dopo due settimane di peripezie, Hamza arriva a Ventimiglia e – come suggeritogli – si dirige presso il Campo Roja, dove si fa identificare e avvia la richiesta di ospitalità. Incalzato sulle sue intenzioni future, risponde senza indugi: “ottenere i documenti, trovare un lavoro che mi consenta di mettere soldi da parte e poi tornare in Tunisia”. Infine aggiunge: “non voglio restare qui tutta la vita, anzi ho proibito a mio fratello di ripercorrere la mia strada”. Lo stesso giorno del nostro ritorno, Hamza è stato trasferito in un centro per minori a Genova.
Come Hamza, molti migranti vedono il Belpaese come una tappa di transito. La conferma ci arriva da Abdul, Adam, e Mahmoud, tre ragazzi sudanesi ‘ospiti’ del ponte delle Gianchette. Abdul ha cercato di oltrepassare la frontiera tre volte, venendo anche riportato in pullman a Taranto: nonostante tutto, non demorde.
Arrivato in Italia nell’agosto 2016, Adam era già riuscito approdare in Francia, ma è stato costretto a tornare indietro perché le sue impronte digitali “erano già state registrate in Italia”, che – in base alle norme imposte da ‘Dublino III’ – risulta ora essere suo primo paese d’accoglienza.
Come Adam, anche Mahmoud è fuggito dalla regione occidentale sudanese del Darfur. Per arrivare a Ventimiglia è passato dalla Libia, un luogo “peggiore dell’inferno” in cui “tutti – dai bambini agli adulti – sono criminali”. Non è possibile girare per strada sicuri perché “quasi ogni civile possiede un’arma da fuoco e si corre il rischio di essere sparati a vista”. I profughi vengono chiusi a chiave nelle carceri e seviziati in maniera disumana. Le torture vengono filmate e i video inviati alle famiglie, le quali possono sollevare i propri cari dall’abominio solo pagando un riscatto. “Sono riuscito a fuggire solo al terzo tentativo”, racconta Mahmoud, che aggiunge: “anche se qui la situazione è difficile, mi ritengo fortunato perché molti miei compagni sono rimasti in Libia: ora mi sento al sicuro e non ho più il cuore pieno di paura in ogni istante”. Appena sbarcato, “ho chiamato i miei parenti per informarli che ero in salvo”. A quel punto, “hanno festeggiato e ringraziato Allah” attraverso il karama, usanza tipica sudanese che consiste nello sgozzare un capretto e donare soldi ad altre famiglie del villaggio. Nei primi 27 giorni di ‘residenza’ a Ventimiglia, Mahmoud ha tentato di raggiungere la Francia ben otto volte, utilizzando ogni percorso possibile: treno, strade asfaltate, sentieri. “Voglio arrivare in Inghilterra perché il Sudan è stata una sua colonia, ho imparato l’inglese in Libia ascoltando i dialoghi tra nigeriani ed autoctoni”, specifica. La Gendarmerie conosce già il suo volto, ma Mahmoud assicura che “non si darà per vinto”. Per ora, come molti suoi compagni, naviga sotto le ‘Gianchette’ in attesa di potersi lasciare alle spalle un confine geografico e, probabilmente, anche un passato troppo pesante da sopportare.
(Il reportage è pubblicato in collaborazione con The Subway Wall – visita il sito)